Teatro - "La Storia del Santo Traditore".

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LA STORIA DEL SANTO TRADITORE

V'è un certo modo di fare teatro che non ha bisogno di spot, microfoni e quinte, che non prevede poltrone o biglietterie, ma per il quale bastano pochi essenziali elementi. Da una parte la componente umana: lo studio di un regista, il lavoro di due attori, l'idea generosa di un organizzatore e quel po' di pubblico che renda il gesto teatrale concreta esperienza condivisa. Dall’altra uno spazio qualsiasi, illuminabile anche da desuete candele, che solo sia accogliente e disponibile ad ospitare una storia locale dell'800.
Quando simili fattori convergono con la medesima onesta semplicità, ciò che nasce ha in sé il senso della tenerezza, di quella tenerezza dei tempi andati, associabili ai nonni, ai loro racconti. Ricordi legati a fienili o piazze, dove chi aveva il privilegio di sapere unito al coraggio di volere raccontare, si metteva dinanzi a tutti quanti solo ed esclusivamente con la maschera del proprio volto e della propria voce.
Raccontare la storia del Pacì Paciana così come è stato fatto in questa occasione, fra un filare di vite e la facciata di Palazzo Licini nella contrada di Caorsone a Poscante di Zogno, è emblema di questa tenerezza detta poc’anzi e conferma che la meraviglia possa risiedere ovunque, a patto che la si cerchi e vi sia qualcuno che la voglia condividere.
"La storia del santo traditore" portato in scena dal Teatroattivo é una produzione autentica, sincera che brilla sul copione, fra le note di regia divenute azioni e le note vere di baghet e zufolo. Brillio che diviene sfavillante proprio per prendere vita in un "non teatro" che ha il cielo come soffitto, il profilo delle montagne come scenografia ed il leggero rumore di fondo dei campanacci: ambientazione questa che non ha pari, poiché magicamente permette alla realtà scenica di aderire perfettamente alla realtà dei fatti raccontati. Pastori e briganti in effetti potevano effettivamente passare da queste contrade e così come il caso poteva farli incontrare, lo stesso caso, poteva creare anche l’occasione perché si parlassero – o come accade nella sceneggiatura, si scambiassero parole con musiche – sciorinando aneddoti od episodi relativi al Pacì Paciana ed ai suoi giorni.
Tutto diviene così simbolicamente vero che nel momento in cui il copione spinge uno degli attori a rivolgere alcune battute alla luna, visualizzandola alle spalle della platea – quando tutti sanno che il cielo coperto ne impedisce la vista - il pubblico fatica a trattenersi, a mantenere la concentrazione sulla scena e a non voltarsi in direzione di quello sguardo così autentico.
Ogni parola coinvolge – ad aiutare questa immedesimazione anche riferimenti folcloristici del territorio – permettendo alla quarta parete di scomparire e lasciando lo spettatore in balia della compassione e della condanna nei confronti delle numerose gesta del Pacì Paciana, raccontate in terza persona da parte del suo “collega” e protagonista della pièce Carcino Carciofoli. E’ infatti il suo racconto a riproporre gli episodi della vita del “padrù della val brembana” caratterizzati ovviamente da una controversa onestà – si dice rubasse ai ricchi per dare a chi ne abbisognava - e dalla costante fuga da sbirri e da quei “franzosi”, che guidati da Napoleone avevano soppiantato da poco la gloriosa Repubblica Veneta.
Lo spettacolo non si adagia mai e lo si apprezza in tutta la sua interezza finché, 50 minuti dopo la battuta iniziale, il gesto scenico si mostra prossimo alla ripiegatura finale che pur avvenendo in modi prevedibili, non impedisce di essere apprezzato.
Per gli attori è tempo di ricevere applausi, per il pubblico è invece il momento di pensare a ciò che in termini di parole ed atmosfere, hanno ricevuto in regalo: la buia storia di briganti, rischiarata dalla luce di chi l’ha voluta condividere.


(Alessandro Pelicioli)
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