Pizzo dell’Omo e Diavolo di Tenda, inediti da Carona

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Pizzo dell’Omo e Diavolo di Tenda, inediti da Carona

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Carona è la mia seconda casa. Da sempre. D’estate assume le sembianze di un campo base dove, tra le altre cose, bivaccare pigramente in vista di escursioni più o meno ardite. Col passare degli anni la fase di progettazione gite si fa ogni estate più complicata, dovendo io scovare itinerari nuovi, che soddisfino almeno parte della mia sete di esplorare cime e vallette ancora non calcate. I giri meno impegnativi tendo, per una ragione o per l’altra, a rimandarli, quelli più stuzzicanti fattibili in giornata sono ormai viziati da lunghi avvicinamenti (da fare a tutta birra) che richiedono un discreto allenamento già solo per raggiungere la fatidica soglia orobica dei Duemila. La sempre più difficile fase di spremitura di meningi produce alfine un’idea che, seppur potendo sembrare balzana ai più, è per me la quadratura del cerchio: andrò al pizzo dell’Omo! Attraverso il passo di Cigola e l’alta val d’Ambria.

Il pizzo dell’Omo è montagna decisamente fuori dagli itinerari battuti, adiacente al celebre Diavolo di Tenda, ma separato rispetto alla verdeggiante val Camisana dalle lisce piode che contornano la bocchetta di Podavit. La cuspide terminale, solcata da caratteristiche striature colorate, fa da spartiacque tra la val Seriana e la Valtellina; insieme ad altri baluardi rocciosi costituisce la testata della selvaggia vallata nella quale sorge l’isolato rifugio Brunone.

Raggiungerne la vetta partendo da Carona, via passo di Cigola (percorso meno “immediato” rispetto a quello per Podavit), vuol dire macinare un dislivello di oltre 2000 metri, ai quali ne andranno aggiunti, nella migliore delle ipotesi, almeno un altro paio per il rientro. L’ultimo tratto, pur rimanendo avvolto nel mistero, richiederà certamente di essere superato con una seppur facile arrampicata. Fatte salve queste premesse, è comprensibile come nella mia testa frullino dubbi e incertezze sulla buona riuscita della gita, acuite dall’essere l’unico ardito partecipante all’iniziativa. Per non farmi mancare nulla, considero anche la possibilità, una volta raggiunta la cima, di traversare al pizzo del Diavolo risalendone la parete/cresta nord: sarebbero ulteriori 300 emozionanti metri di dislivello. Mi trascrivo qualche appunto apponendovi in parte un immaginario, grosso punto interrogativo.

Alle 5.55 di un fresco martedì d’agosto mi chiudo la porta alle spalle. Partire a camminare dall’uscio di casa è ogni volta motivo di gioia. Avrò calcato la “Strada Bassa” verso Pagliari decine e decine di volte: da piccolo col babbo mi si apriva dinnanzi un mondo fatto di mistero e avventura, successivamente per gite più impegnative da solo o in compagnia, ultimamente, conoscendone quasi ogni pietra. Lo zaino è piuttosto leggero, l’unico sfizio concessomi è un chilo di treppiede. Senza incontrare nessuno, saluto il borgo dormiente, il primo sole sui Corni di Sardegnana, la cascata di Sambuzza, la baita del Dosso, la “Fontana Rossa”, la conca del lago del Prato, le prime marmotte e, finalmente, il Longo e i suoi gestori.

Davanti ad una fetta di torta espongo le mie intenzioni, ricevendo in cambio occhiate di sorpresa e disappunto. L’Enzo si congeda con un: “Se non ripassi di qui fammi sapere”, che in dialetto bergamasco sta a significare: “Secondo me non c’arrivi su di lì e comunque stai attento che non ti voglio avere sulla coscienza”. Ringalluzzito dal rinnovarsi della sfida con me stesso, riparto alla volta del passo di Cigola che raggiungo ben presto. In anticipo sulla tabella di marcia. Il colpo d’occhio sull’alta val d’Ambria è incantevole, ravvivato dalla luce del mattino. Disgrazia e Bernina appaiono per la prima volta meno severi ai miei occhi. Mi rendo conto di quanta quota devo perdere. Fingevo di non saperlo. Impreco. Sorrido. Il tempo di un autoscatto e sto già ruzzolando a valle in linea retta per sfasciumi ed erbe. Il cosiddetto avvicinamento è terminato: da qui in avanti è tutto nuovo, da gustare con la dovuta calma.

Dopo quasi un’ora di attenta discesa, mi imbatto nell’alta via delle Orobie valtellinesi che brevemente seguo, prima di svoltare verso nord in direzione della bocchetta di Podavit. Il paesaggio si spoglia di qualsiasi aspetto dolce per farsi ora tetro, decisamente poco invitante. Le pareti del Rondenino fanno quasi spavento. Il terreno è costituito da una pietraia, francamente bagnata, che in altri momenti avrei considerata infame. Ma ora sto bene, salto da un sasso all’altro con disarmante facilità, non sono per nulla stanco. Sarà la novità del panorama o uno straordinario periodo di forma, fatto sta che in men che non si dica mi ritrovo in prossimità della testata della valle con la stravagante compagnia di capre sassivore (non mi spiego altrimenti per quale ragione si siano spinte in questo luogo desolato). Ma la sorpresa è reciproca: incuriosite dalla mia presenza, restano in posa a fissarmi. Le immortalo e scappo via. Verso l’alto. Verso il pizzo che, ormai a portata di mano, si erge scuro alla mia sinistra. Spengo la sete all’ultimo rigagnolo della valle, assaporo la fatica sul ripido e sfasciumoso pendio, lancio un’occhiata al celebre cengione che scende dalla bocchetta di Podavit.

Con l’aumentare della pendenza, risultando svantaggioso il procedere per sfasciumi, decido allora di sferrare l’attacco alle rocce sulla verticale della cima. Non faccio in tempo a cercare i primi appigli che un grido risuona nella valle. E’ l’amico Nazzareno che dalla via normale del Diavolo mi dà il buongiorno e mi sprona a proseguire. E’ grazie a lui, ma soprattutto grazie alla voglia di uscire dal marciume delle esposte roccette dove mi son cacciato che, in quattro e quattr’otto, per canalini e saltini raggiungo la cresta dove posso finalmente tirare un sospiro di sollievo. Ricaccio indietro un principio di commozione rimettendomi in marcia alla volta della ormai vicina vetta. La raggiungo e la sento mia. Il primo sguardo va alla terrificante parete nord del Diavolo di Tenda. La scruto in religioso silenzio. Mi rivolgo quindi al Redorta, al Rondenino, al roccioso crinale che prosegue verso nord, interrotto dalla cima settentrionale del pizzo dell’Omo.

Sorrido, mi preoccupo, mi siedo, gioisco, contemplo, infreddolisco. Riparto. Direzione? Passo del Diavolo e cima omonima. Forse. Ripercorro a ritroso la cresta fino ad un primo gendarme che, con prudenza, ma senza particolari problemi, aggiro sul versante valtellinese. Un secondo torrione, un intaglio e alcune affilate roccette, mi depositano dinnanzi all’ultimo inaccessibile barbacane. Il suo aggiramento, ancora una volta sul lato Ambria, mi crea qualche grattacapo in più, essendo il terreno maledettamente marcio. Ed esposto. Trattengo il fiato e, senza troppo guardare in basso, mi appiattisco contro la roccia, avendo cura di tastare ogni appiglio. Sono fuori. Si fa per dire.

La verticale parete nord del Diavolo farebbe paura a chiunque. Almeno prima che si fosse individuata l’invitante fessura che permette di superare agevolmente le difficoltà iniziali. Muovendosi in traverso tra massi pericolanti e rocce millefoglie, si guadagna un secondo canale che, in obliquo da destra a sinistra, permette di contenere la comunque ragguardevole esposizione sulla valle del Salto. Guadagnata la cresta nord-est, non resta che affidarsi a placche e risalti rocciosi che, senza percorso obbligato, permettono di intercettare la via normale di salita prima e la vetta poi. Sono per la terza volta in cima alla montagna simbolo della val Brembana: la ciliegina sulla torta di questo splendido e inedito giro. E per una volta non mi importa se la classica nuvola che abitualmente vi staziona da metà mattinata mi nega il panorama.

Appagato e soddisfatto, neppure troppo stanco, scendo trotterellante. Due distinte famigliole di stambecchi mi regalano alcuni altri momenti di bellezza montana e poi via verso il Longo: c’è l’Enzo da tranquillizzare.

Sarebbe finita qui se non fosse che i parenti mi sono venuti incontro al rifugio. Non posso pertanto esimermi da una risalita al lago del Diavolo e ad una piacevole (tranne che per le mie anche) divagazione verso la baita Armentarga che mi fanno raggiungere la ragguardevole cifra di 2700 m di dislivello.

Che giornata! E ora cosa mi invento per le prossime volte? a_34
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A Pagliari tutto è tranquillo

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La bella d’inverno, versione estiva

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Giochi di luci e ombre sul pizzo Torretta e sui Corni di Sardegnana

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Ombre ancora lunghe oltre il Longo

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Al passo di Cigola svetta tra le nubi l’ora più conosciuto Disgrazia

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Giù a tutta velocità per sfasciumi

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Le mie mete da qui incutono un certo timore (Diavolo all’estrema destra, Omo la puntina appena a sinistra)

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Uno sguardo alla val d’Ambria

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