Il culto delle Madonne Nere lungo i sentieri dell’alta Valle

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Il culto delle Madonne Nere lungo i sentieri dell’alta Valle Brembana

di Denis Pianetti - Quaderni Brembanbi 16

Percorrendo alcuni sentieri dell’alta valle accade di imbattersi in una particolare effigie della Beata Vergine il cui volto è contraddistinto da un insolito colore: il nero. Origini e cause di questa iconografia sono varie e in parte ancora misteriose, tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi; non lo è, invece, l’origine del culto, del quale cercheremo qui di approfondire anche le ragioni della sua diffusione in ambito vallare. Com’è noto l’intera valle conserva una ricca e diversificata gamma di dipinti, prevalentemente di carattere sacro, che adornano le edicole votive e le pareti esterne delle vecchie abitazioni. In un suo scritto lo studioso Vittorio Polli aveva decantato l’anima religiosa dei frescanti ricordando come, lungo i secoli, essi “hanno continuato a muoversi nei meandri delle nostre valli e vallette, per mulattiere e passi, nei paesi sulle montagne, dove la pietà di qualcuno aveva costruito una piccola cappella o una modesta chiesa. Mentre la pittura dei grandi lombardi era un po’ pittura di corte e un po’ pittura religiosa, quella nostrana era tutta e solo religiosa. Era dunque lo specchio del tempo e il motivo di una civiltà, di un modo di vita e di una condizione sociale. In ogni paese, nelle chiese o sulle facciate delle case, esistevano pitture murali di soggetto religioso. Era un bisogno della gente, per la preghiera, per l’aiuto, per la speranza”.1 La costruzione degli edifici sacri e la loro decorazione, quindi, sono stati essenzialmente un avvenimento di fede, prima che artistico, una realtà altamente significativa perché indice del sentire religioso di una comunità. Non di rado la santella o l’affresco erano corredati dal nome del committente che, fatta eseguire l’opera, ne lasciava in pegno ai discendenti la cura e la custodia, nonché la reiterazione del culto; talvolta, le immagini, erano accompagnate da iscrizioni che proponevano semplici giaculatorie, brevi orazioni, inviti rivolti ai passanti alla preghiera e alla meditazione sui misteri della fede e sulla brevità della vita. Committenti e frescanti, non intendevano far solo un’opera d’arte: il fine era di favorire nel popolo cristiano il senso del divino, la preghiera, il trasporto spirituale; l’arte, quindi, come veicolo e icona della fede di un popolo da una parte, e del divino dall’altra. In genere i soggetti erano dettati da manifestazioni di pietà popolare e non erano legati all’ufficialità del culto, ma riconducibili alla spontanea iniziativa dei devoti. La cultura era la Biblia pauperum, narrata con figure per la povera gente che non sapeva leggere (spettava a chi si trovava di fronte all’opera saperne interpretare il messaggio spirituale). Così oltre alla vita di Gesù, c’erano le storie di Maria, degli Apostoli e dei Santi.
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Le origini misteriose di un’antica devozione

L’iconografia di Maria, cioè il modo di rappresentare la figura della Madonna nell’arte sacra, raggiunse una forma stabile e ben definita dopo i primi secoli del Cristianesimo, al pari della figura di Gesù, ispirando successivamente artisti di tutti i tempi e di tutti i paesi. Ma come fu che nella vita delle comunità credenti, dei pellegrini, degli oranti vennero ad esistere le Madonne Nere? Per spiegare questo singolare fenomeno occorre risalire ai tempi più antichi; come si è detto, il valore simbolico dei loro volti scuri resta per lo più sconosciuto e misterioso anche ai più esperti in materia religiosa e antropologica, lasciando quindi spazio a diverse opzioni. Una delle interpretazioni più avventate lo fanno risalire al culto primigenio della Grande Madre, legato alla fertilità e ad una religione di tipo matriarcale. Sin dal XVI secolo studi eruditi ravvisarono nelle Madonne Nere reminiscenze di antiche divinità pagane, dalla Diana di Efeso alla dea Iside (con in braccio Horus)2, figure che per via della fusione “sincretica” con il cristianesimo avrebbero assunto in seguito il volto di Maria. La tradizione attribuisce tuttavia la prima raffigurazione di una Madonna dal volto non eburneo a San Luca Evangelista, primo iconografo che dipinse la Vergine Maria: si tratta della Madonna Odigitria, o Odighitria, ovvero Maria con in braccio il Bambino Gesù che tiene in mano una pergamena arrotolata e che la Vergine indica con la mano destra (da qui l’origine dell’epiteto). Il colorito scuro della Madonna attribuita a San Luca rese possibile anche una diversa interpretazione: essendo il nero un colore che esprime dolore, simbolicamente non poteva che rappresentare una Madonna Addolorata (cfr. versetto 2, 35 del Vangelo di Luca “e a te stessa una spada trafiggerà l’anima”). Il tema figurativo dell’icona di San Luca rappresentò, a partire dal V secolo, uno dei maggiori oggetti di culto a Costantinopoli (qui introdotta, dopo un pellegrinaggio in Terrasanta, da Santa Elia Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II), tanto che durante il periodo medievale si diffuse ampiamente all’interno delle correnti d’arte bizantine e russe; l’icona originaria andò perduta nel 1453, quando Costantinopoli cadde in mano agli ottomani.3 Secondo la leggenda fu il presule sardo sant’Eusebio di Vercelli, primo vescovo del Piemonte, esiliato in Cappadocia per le persecuzioni ariane, a portare in Italia nel 345 d.C. tre statue di madonne nere, tuttora venerate rispettivamente nei santuari di Oropa e di Crea, in Piemonte, e nella cattedrale di Cagliari. Alcuni studiosi, tuttavia, legarono l’elezione alla devozione cristiana di questi luoghi ad un preesistente culto celtico delle matreso matronae (divinità della Terra), al quale si sarebbe in seguito sovrapposto quello cristiano della Vergine Maria, grazie appunto all’azione pastorale di sant’Eusebio.
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Qualunque ne sia stata la finalità evangelica o la giustificazione teologica, la diffusione in occidente di immagini di Madonne Nere è stata spesso associata a legami con l’Oriente. Lo stesso Eusebio sarebbe stato, ad esempio, uno dei primi testimoni del culto orientale dell’allora appena sorta iconografia relativa alla devozione nei confronti della Vergine Nera. Questo culto, in seguito, sembrò essere stato particolarmente intenso all’epoca delle crociate, sia perché diversi crociati portarono in patria icone orientali, sia per l’azione di alcuni ordini religiosi (carmelitani e francescani in primis, molto attivi anche in Terrasanta e in Siria) o cavallereschi (soprattutto quello dei Templari, che disponevano di proprie chiese nelle principali città europee, soprattutto in Francia, dove per l’appunto si può ritrovare il maggior numero di Madonne Nere). La diffusione delle Madonne Nere in epoca medievale fu un po’ come il proliferare delle reliquie cristiane nelle chiese e nei santuari d’Europa. Fra le tante teorie in merito al colorito scuro vi fu anche quella dell’annerimento naturale dovuto al gran numero di candele votive acceso in loro onore; all’origine i volti e le mani delle Madonne e dei Bambini sarebbero stati rosati, riproducevano cioè un incarnato che si riteneva fosse quello normale. Talvolta, per evitare che il volto di Maria risultasse chiazzato dal fumo, si provvedeva a uniformare il colore scuro con il pennello. Non riuscendo a riportarlo all’incarnato chiaro originale, i fedeli e questo è un dato costante in epoche e luoghi diversi - si erano abituati a vederlo nero, e non lo riconoscevano chiaro (anche perché, nel frattempo, l’immagine miracolosa era stata replicata, e le repliche erano ovviamente nere). Avvenne nel XIII secolo in Catalogna, per la Madonna nera di Montserrat, che era stata ridipinta chiara, e ugualmente alla Madonna del Sacro Monte di Crea, tornata bianca dopo il restauro del 2000. In entrambi i casi, tuttavia, i fedeli pretesero che il volto e le mani tornassero al colore da loro riconosciuto, scuro, in quanto era l’immagine miracolosa a loro già nota. Un’ulteriore interpretazione ha inoltre visto per tempo - già in età medievale, nel volto oscuro di queste immagini mariane - un richiamo alla fanciulla del Cantico dei Cantici (Antico Testamento) e così l’ha proposto alla considerazione dei fedeli devoti. Nel periodo aureo dell’umanizzazione dei personaggi evangelici, quel XII secolo che fu dominio incontrastato della cultura monastica, Bernardo di Chiaravalle, e con lui il suo ordine, i cistercensi, avrebbero infatti contribuito a diffondere i tratti dolci e misericordiosi della sposa Nigra sum, sed formosa (“bruna sono, ma bella”, perché “bruciata dal sole”, “nera come le tende dei beduini”, Cantico dei Cantici 1,5-6) unendo i toni affettivi dei sentimenti e della tenerezza materna all’antica ieraticità che l’iconografia mariana bizantina aveva privilegiato. La predicazione di San Bernardo, dunque, potrebbe essere una delle cause della diffusione delle Madonne Nere. Vi è infine un’altra tradizione, forse la più rilevante dal punto di vista storico e religioso, che documenta la diffusione in Occidente, e in particolare in Italia, delle Madonne Nere: è quella della Santa Casa di Loreto, casa dove visse la famiglia della Vergine Maria, “traghettata” miracolosamente dalla Terrasanta nelle Marche sul finire del XIII secolo. Al suo interno giace una statua della Vergine Nera (l’originale andò perduta nel 1921 durante un incendio), esposta con il suo ricco abito tradizionale, un caratteristico manto ingioiellato detto dalmatica. Il suo culto, così come quello della Santa Casa, è vivo in molte altre chiese di tutto il mondo, dove in alcuni casi è presente una replica fedele della costruzione conservata a Loreto. È appunto a quest’ultima tradizione che si lega la maggior parte delle riproduzioni mariane, dal volto bruno o nero, che si possono incontrare lungo i sentieri dell’alta valle Brembana.
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La storia poco nota di un ex voto conservato nella chiesa di San Giovanni Battista a Cugno

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Il prodigio eclatante della traslazione della Santa Casa a Loreto attirò, fin dall’inizio del Trecento, una moltitudine di pellegrini, la maggior parte dei quali, in particolare, prendendo la strada costiera, era diretto a San Michele al Gargano oppure in Terrasanta. Nei secoli XV e XVI il flusso divenne enorme, coinvolgendo re e regine, principi, cardinali e papi, che lasciarono doni o ex votoper grazie ricevute; a loro si aggiunsero nei tempi successivi, condottieri, poeti, scrittori, fondatori di ordini religiosi, filosofi, artisti, futuri santi e beati, oltre che a tanta gente comune. Non è raro quindi trovare in oratori e chiese di tutta Italia il segno di questa intensa e singolare devozione. All’interno della chiesa di San Giovanni Battista Decollato a Cugno superiore di Santa Brigida, edificio del XV secolo, si può osservare un pregevole dipinto della Madonna di Loreto che risale alla seconda metà del Seicento. Il quadro, un olio su tela (75,5x113 cm) restaurato nel 1983, raffigura la Vergine Nera con il bambino, affiancata da due angeli bianchi che sorreggono ciascuno un candelabro. Nell’angolo inferiore destro è ritratto il devoto committente, mentre sul lato opposto, sempre in basso, vi è lo stemma della famiglia Rivellini (qui scritto Reverini).6 Il quadro si richiama ad un classico ex votodedicato alla Vergine per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa, riprendendo dipinti già noti, come ad esempio quello di Carlo Ceresa (1609-1679) raffigurante sempre la Madonna di Loreto con a lato l’offerente Antonio Begnis.7 Quest’opera, un olio su tela (95x78 cm) ugualmente databile alla metà del Seicento e che fa oggi parte di una collezione privata di Bergamo, presenta alcuni tratti in comune al dipinto che si trova nella chiesa di Cugno: sono raffigurati i putti ai lati della Vergine, le lampade e i candelabri; in basso a sinistra la scritta “Antonio Begnis de anni 48” rivela l’identità del Cavaliere di Malta genuflesso davanti alla statua della Vergine miracolosa, alla quale egli ha appeso le proprie onorificenze (una statua della stessa tipologia, che porta appeso un collare dell’Ordine di Malta, si trova in una cappella della parrocchiale di Vilminore di Scalve).8 Per il fatto che nella stessa chiesa è conservato proprio un quadro del Ceresa, il Martirio di San Giovanni Battista,al quale è intitolato l’edificio sacro, non si può escludere che l’ignoto autore dell’ex voto del Rivellini conoscesse l’opera del pittore sangiovannese. Vi è tuttavia un’altra ipotesi, il caso in cui sarebbe stato invece il Ceresa a prendere spunto dal dipinto conservato a Cugno. Secondo la tradizione orale locale, infatti, l’opera era stata offerta in dono alla chiesa di Cugno e proveniva da Genova, dove pare che alcuni componenti della famiglia Rivellini lavorassero presso il porto come facchini, in genere soprannominati “camalli”, addetti al trasporto delle merci da bordo delle navi sulle banchine o viceversa. Com’è noto, l’antica corporazione di voratori dello scalo genovese, la compagnia della Caravana, era esclusivamente di origine bergamasca: in base a uno statuto entrato in vigore nel 1487, e abolito solo a metà Ottocento, potevano appartenere solo soci provenienti dalle vallate situate intorno a Bergamo. Fin dalla sua costituzione, la compagnia mostrò una forte componente religiosa legata al culto della Madonna del Carmine: la sua intercessione era indispensabile vista la fatica del lavoro e i rischi a cui i camalli potevano essere esposti nella zona del porto, dove si trasportavano pesanti carichi. Non si esclude che, con la diffusione in Italia del culto della Madonna di Loreto, verso la metà del Seicento, la devozione di alcuni camalli si estendesse anche alla Vergine Nera. Risale infatti a quel periodo, e per l’esattezza negli anni tra il 1650 e il 1655, la costruzione di un piccolo santuario a lei dedicato nel quartiere genovese di Oregina, somigliante dal punto di vista architettonico alla Santa Casa di Loreto e realizzato vicino ad un muro dove era dipinta una Madonna. Se è probabile che l’origine del dipinto conservato nella chiesa di Cugno sia questa, ovvero di un comune ex voto giunto, o commissionato, da altrove, la storia degli altri affreschi murali raffiguranti la Madonna Nera meglio ci fa comprendere come il suo culto si diffuse, in genere, nelle vallate alpine.

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Gli affreschi esterni raffiguranti le Madonne di Loreto e di Oropa in Val Fondra

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Degli affreschi esistenti in alta Valle Brembana è disponibile un interessante censimento il cui risultato fu pubblicato dalla Provincia di Bergamo nel 1985 con il titolo I segni dell’uomo e del tempo. Affreschi esterni nell’Alta Valle Brembana.Un patrimonio sempre a rischio, vuoi per il passare degli anni e per le intemperie e vuoi, a volte, purtroppo, per l’incuria dell’uomo. Si tratta di dipinti murali vecchi di secoli, che si vedono ancora qua e là sulle case dei paesi e delle frazioni, spesso anche su edifici isolati, i cui autori, per lo più artisti locali, restarono anonimi, e il cui stile fu pressoché simile a quello degli ex voto,dallo schema iconografico semplice, la tematica talvolta ripetitiva, le tecniche modeste. La loro realizzazione, così come quella delle santelle e delle tribuline ai lati dei sentieri e delle mulattiere, si accentuò in particolare durante il XVII secolo, in seguito alla visita pastorale di San Carlo Borromeo e nel periodo in cui cominciarono a svilupparsi le confraternite del SS. Rosario, dedite alla diffusione della devozione mariana, un tema del resto già noto da alcuni secoli. Buona parte degli affreschi catalogati ha infatti come soggetto la Madonna, talvolta solitaria, in piedi o seduta, spesso con il Bambino in braccio e affiancata da alcuni Santi.

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Nello specifico della Val Fondra, queste confraternite le ritroviamo a Valleve nel 1643, a Fondra nel 1649, a Foppolo nel 1659, a Branzi nel 1698.9 Accanto alla classica iconografia, in alcuni rari casi, e addirittura in tempi antecedenti, venne introdotta anche la figura della Madonna Nera, in particolare della Madonna di Loreto. La più antica si trova in un affresco che giace sulla parete esterna di un rustico presso la frazione Tegge di Foppolo. Riporta la data del 1635 e raffigura la Madonna di Loreto con Bambino, vestita del suo ricco manto bianco ingioiellato e la triplice corona fra S. Carlo Borromeo e S. Rocco. A lato dell’opera (100x200 cm), ben riparata dalle travi sporgenti del tetto, vi è la figura di S. Antonio Abate e un elaborato fregio decorativo con la figura di un cherubino. Fra le sacre personalità, un monito al devoto viandante: “O TV CHE PASSI P QVESTA VIA SALUTARAI LA VER.NE MARIA / P AMOR D DIO GVARTATEVI FRATELLI DAL BIASTEMARE ET DAL PARLARE DISONESTO ALTRAMENTE EGLI VI CASTIGARA”. Prosegue a lato della medesima decorazione una scritta lacunosa con il presunto nome del devoto committente “M DOMINICO D SANCTI F.F... DIVOTIO... ANNO 163...”. L’opera, recentemente restaurata, è in buono stato di conservazione.
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Dei santi qui rappresentati Carlo Borromeo è senz’altro il più celebre: la sua figura si replica in moltissimi altri affreschi della valle, in memoria della sua visita apostolica avvenuta nel 1575. Non è da meno quella di San Rocco, la cui popolarità, com’è ben noto, è dovuta al ruolo d’intercessore speciale nella guarigione della peste (ne è segno distintivo la piaga che egli stesso mostra sulla sua gamba). Sant’Antonio Abate, infine, eremita e taumaturgo, protettore degli animali domestici e in particolare di quelli delle stalle, è qui ritratto con il suo campanello e il fuoco nella mano destra, a ricordare la sua fama di guaritore dell’herpes zoster, meglio noto come “fuoco di Sant’Antonio”. Anche nel pregevole affresco esterno della “Nostra Signora di Loreto” presente a Branzi, al numero 4 di via Scarsi, compaiono nuovamente i Santi Antonio Abate e Rocco, sulla destra, mentre sulla sinistra al fianco di Carlo Borromeo vi è San Bartolomeo, patrono di Branzi, che in una mano tiene il coltello (col quale, secondo la tradizione, verrà poi scuoiato) e nell’altra la Bibbia.

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La Vergine con Bambino, sempre ritratta con la sua dalmaticabianca ricamata e ingioiellata, oltre che alla corona dorata, è raffigurata simbolicamente nella Santa Casa alla cui base vi è uno stemma con aquila. L’affresco (180x240 cm) è datato XVII secolo ed è ugualmente ben conservato, ad esclusione dell’iscrizione sotto riportata “HOC OPVS F.F. TADEVS FILIVS CRISTOFORI...” che risulta essere solo in parte leggibile. Un altro interessante e particolare affresco della Madonna di Loreto con Bambino si può ammirare nella frazione Foppa di Isola di Fondra. A differenza dei precedenti, ai lati della Vergine vi sono oltre a due cherubini anche due nuovi santi: San Lorenzo (qui scritto Lorenso), patrono della parrocchia di Fondra, ritratto sulla sinistra reggendo la graticola sopra la quale, secondo la tradizione, sarebbe stato arso vivo; e San Giorgio, sulla destra, con la sua lancia d’oro, generalmente invocato contro i serpenti velenosi e la peste. Entrambi i santi sono connotati dal proprio nome scritto alla base dell’affresco; non vi è altra iscrizione relativa al committente, ma è ben evidente uno stemma di famiglia al centro dell’opera, proprio sotto la figura della Madonna. L’affresco (170x130 cm), anch’esso risalente al XVII secolo, se comparato agli studi effettuati trent’anni or sono presenta attualmente alcune aree di degrado. Curiosamente, è da notare che lungo la mulattiera che dal paese di Fondra sale a Foppa, a pochi passi dalle prime case della frazione e nel bel mezzo del bosco, vi è una edicola votiva dell’inizio del XIX secolo sulla quale è raffigurata un’altra Madonna Nera, che non è quella di Loreto, bensì quella di Oropa, località delle Alpi biellesi. L’effigie della Vergine di Oropa col Bambino è dipinta in una nicchia della santella, il cui timpano presenta decorazioni floreali e uno stemma con aquila. Sul fronte, al lato sinistro della Madonna compare la figura di San Bartolomeo, mentre su quello opposto vi è Santa Grata; sul fianco destro dell’edicola è invece raffigurata Sant’Agata. Un piccolo quadro contenente un ex votoè appeso sulla parete della nicchia, mentre alla base dell’affresco, di recente restauro, si può leggere una scritta, incompleta, che ne identifica appunto la sua origine: “IMMAGINE DELLA MIRACOLOSA S.S.MA VERGINE D’OROPA CORONATA PER LA TERZA (VOL)TA CON...”. L’indizio della terza incoronazione ci è utile per attribuire una data approssimativa a questo affresco, ovvero il 1820, dal momento che il solenne gesto si ripete infatti ogni cento anni, a partire dal 1620. L’omaggio alla Vergine potrebbe essere quello di un devoto pellegrino o emigrante della frazione di Foppa sulla via della Francia.10 Foppolo, Branzi, Fondra.

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Se escludiamo quest’ultima edicola votiva dedicata alla Vergine di Oropa, abbiamo ben tre affreschi murali esterni che hanno in comune il culto della stessa Madonna Nera, culto proveniente dalla Santa Casa di Loreto. Tutti sono situati lungo quelle che un tempo erano mulattiere frequentate da viandanti, commercianti e gente comune; una, quella di Branzi, situata nel cuore del paese, le altre in due frazioni isolate, Tegge e Foppa, a circa mezz’ora a piedi dal rispettivo nucleo principale. Quale fu l’origine di questi affreschi? Cosa portò devoti e frescanti a raffigurare la Vergine Nera di Loreto? Per comprenderlo meglio occorre risalire agli inizi del XVII secolo, quando la Chiesa era nel suo pieno fervore controriformistico. L’8 settembre 1620, nei dintorni di Bergamo, presso un antico oratorio dedicato alla Vergine Annunciata s’iniziò “la costruzione di un santuario sul modello della Santa Casa di Loreto, dove il 12 giugno 1622 fu solennemente trasportata la statua della Madonna, dono del vescovo Giovanni Emo”.11 L’antica cappella e l’attigua Casa di Loreto furono in seguito demolite a metà Ottocento per erigere la chiesa neoclassica della nuova parrocchia (il toponimo “Loreto” tuttavia rimase a denominare quello specifico quartiere della città). Di Giovanni Emo, proveniente da famiglia nobile veneta, si ricorda l’intensa visita pastorale durata alcuni anni a partire dall’anno successivo alla sua elezione a vescovo di Bergamo, avvenuta nel 1611, e il cui principale obiettivo era quella di appurare l’applicazione dei decreti del Concilio di Trento; un po’ come fece, del resto, il cardinale Borromeo, ugualmente devoto alla Vergine di Loreto, sempre nel territorio della Diocesi di Bergamo nell’anno 1575. Il vescovo Emo percorse i paesi della Val Fondra nel maggio del 1615 e non è escluso che proprio quella visita sia all’origine della diffusione del culto di Loreto in alta valle. Occorre qui precisare che il Concilio di Trento, convocato nel 1545 per tentare una ricomposizione tra cattolici e protestanti, accentuò con la sua riforma il manifestarsi della devozione mariana e lauretana.12 Esso dettò norme anche in merito alla produzione artistica (come un maggior rispetto delle fonti, o il bando alle invenzioni gratuite e alle immagini di nudi), ma più in generale determinò una radicale svolta dei tempi, svolta che finì per influenzare l’arte ben al di là delle indicazioni precettistiche date. In particolare, la riforma postridentina, introdusse il principio che le opere religiose dovevano essere approvate dal vescovo della Diocesi; se tali non erano conformi alle aspettative, queste potevano essere censurate, o si poteva richiederne la modifica. Il santuario di Loreto nelle Marche era inoltre così fortemente riconosciuto che il suo aspetto e la sua Vergine Nera furono anche raffigurati in stampe di larga diffusione, tali da indurre tutti, nelle loro iniziative costruttive e decorative, a precisi rimandi alla sacra effigie. I padri conciliari trovarono nel centro devozionale di Loreto la migliore sintesi del culto mariano proprio perché nella sua chiesa vi era “miracolosamente” giunta la casa di Maria di Nazareth, dove era nata e dove ricevette l’annuncio della sua divina maternità. Con questi ottimi presupposti il santuario lauretano, con la sua Vergine Nera, superò ogni confine e si avviò verso il suo massimo splendore. Fu a partire da questo periodo che il motivo iconografico lauretano acquisì una funzione liturgico-pastorale, pur conservando quella votiva, favorita dalla richiesta avanzata da varie regioni ecclesiastiche d’Italia e d’Europa di poter celebrare con officio e messa propria il giorno 10 dicembre la festa della Traslazione della Santa Casa. Il suo culto, per mezzo di statue e affreschi, si diffuse a macchia d’olio: la beata Vergine e gli angeli, coloro che si occuparono di trasportare il santo sacello, furono spesso raffigurati - come abbiamo visto anche nel caso degli affreschi della Val Fondra - assieme ai santi patroni o ai santi che venivano invocati come intercessori presso Dio per essere guariti e liberati dalle malattie contagiose o per proteggere, nel caso di S. Antonio Abate, le proprie stalle e le proprie mandrie. Nel corso del secolo XVII il culto alla Madonna di Loreto non solo si innestò nella tradizione religiosa locale ma si diffuse fino a coinvolgere anche la committenza più ricca e più colta, e questo lo abbiamo visto con il dipinto commissionato a Carlo Ceresa.13 In genere la costruzione dei sacelli sul modello di quello lauretano, come si ebbe al quartiere Loreto di Bergamo e in molte altre chiese o santuari d’Italia e oltralpe, risultò motivata da un voto emesso dalla comunità cittadina per implorare l’intercessione della Vergine. Così avvenne, ad esempio, anche per l’edificazione del Santuario della Madonna di Loreto a Cenate Sotto, la cui fabbrica ebbe inizio nel 1617 grazie al contributo economico della popolazione: a partire dai primi anni del 1600, nei testamenti dei fedeli cenatesi conservati nelle filze notarili, compaiono spesso lasciti più o meno cospicui a favore del nuovo santuario, segno inequivocabile della devozione popolare nei confronti della Madonna Nera.14 Diversamente, nelle zone di frontiera e oltre le Alpi dove la riforma postridentina era in atto, questo rinnovato fervore spirituale si manifestò talvolta come una provocatoria iniziativa da parte della fede cattolica. Sembrano assumere tale significato le chiese dedicate alla Vergine lauretana - anch’esse riprendono il modello del sacello della Santa Casa di Loreto - costruite in Valtellina e in Val Chiavenna, al confine con il Cantone dei Grigioni, raggiunto dalla Riforma prote stante. Anche lungo i sentieri di queste valli si possono ammirare degli affreschi murali raffiguranti la Madonna Nera, proprio come in alta valle Brembana.
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Un curioso affresco a Scasletto di Valtorta

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Una manciata di case in una frazione isolata sui monti sopra Valtorta, Scasletto. La si raggiunge tramite una comoda mulattiera, a tratti ripida, che ha inizio presso il vecchio mulino e sale in mezzo ai boschi affiancando un torrente. Non appena appare il piccolo gruppo di case balza subito all’occhio, sulla parete d’una di esse, un affresco molto particolare. Raffigura la Madonna Nera, seduta con in braccio il Bambino e guardata da due cherubini, tra Sant’Antonio Abate sulla sinistra che regge il solito bastone con campanella, e un santo non ben riconoscibile sulla destra. L’affresco, data bile con molta probabilità al XVII secolo e di autore ignoto, non si presenta in ottimo stato di conservazione, pur avendo subito una qualche recente operazione di restauro. Fra l’altro, esso non risulta nella catalogazione effettuata dalla Provincia nel 1985. La particolarità di questo affresco è che, oltre allo sfondo nero, anche i santi e i cherubini hanno il volto e le mani neri (cosa che può far pensare ad un tentativo di recupero non completo, o dei soli lineamenti). L’effigie della Madonna, e quella del Bambino, si discosta ampiamente dalla classica raffigurazione della Madonna di Loreto, e pure da quella di Oropa; il suo abito è semplice e non porta la triplice corona al capo. Lo schema del dipinto ci può anche far dedurre che esso fosse inizialmente quello di una Madonna comune, non dal volto nero, e che la copertura scura sia solo conseguenza di un successivo intervento. A prescindere dalla storia e dagli avvicendamenti poco noti di tale affresco e se ci si trovi di fronte, oppure no, a una originale Madonna Nera, non ci si può esimere dal far osservare un aspetto molto curioso dello stesso: il Bambino ha la coda ed è ben evidente il suo volgersi sull’abito bianco della madre. Che si tratti dell’ennesima tentazione del diavolo nei confronti di Sant’Antonio Abate? Tale ipotesi è molto probabile, dal momento che l’iconografia sacra, le tradizioni, le storie e le leggende di Valtorta rimandano assai spesso alla figura del diavolo. La lotta tra Sant’Antonio e il diavolo, inteso come personificazione del male, si rifletteva nella vita quotidiana della comunità locale, impregnata di forti valori cristiani e finalizzata alla ricerca della salvezza dell’anima, attraverso l’arte, il folclore e anche il carnevale. In particolare, questo curioso aspetto del dipinto murale di Scasletto, ricorda il ciclo di affreschi cinquecenteschi che ricopre le pareti del presbiterio della chiesa di Sant’Antonio Abate della contrada Torre, dove sono presentate le scene delle tentazioni del Santo, ancora oggi molto venerato a Valtorta essendo considerato il protettore delle mandrie e delle greggi. Egli veniva periodicamente assalito da demoni dalle sembianze angeliche, umane e bestiali, con il latente obiettivo di indurlo al peccato: il maligno assumeva così l’aspetto di una giovane e ammaliante donna affinché cedesse alle tentazioni della lussuria; oppure di una grossa pepita d’oro per infondere in lui la brama della ricchezza; o quella di un fanciullo scuro in volto, dall’apparenza innocente, con il chiaro scopo di trarlo in inganno; fino all’incontro con un enorme diavolo, al quale il Santo riuscì a sottrarsi col segno della croce.16 Talvolta anche il culto della Madonna Nera si è legato a qualche tradizione o leggenda legata al diavolo; ne sono, ad esempio, testimonianza le storie del Santuario della Beata Vergine di Loreto a Forno Alpi Graie, nel piemontese, o quello di Castelmonte, in Friuli. Forse anche questo affresco isolato sui monti sopra Valtorta ha qualcosa da raccontarci...
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marco88
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Re: Il culto delle Madonne Nere lungo i sentieri dell’alta V

Messaggio da marco88 »

Eccellente contributo, mancava qualcosa di un po' esaustivo a riguardo in ambito brembano!
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